Mio figlio ha costruito una famiglia in cui non ho posto.
Mi chiamo Giovanni. Ho 72 anni. Vivo solo in una vecchia casa alla periferia di un piccolo paese, un tempo pieno di vita. Qui, in questo cortile, mio figlio correva scalzo nellerba, mi chiamava per costruire capanne con vecchie coperte, insieme arrostivamo patate nella brace e sognavamo il futuro. Allora credevo che quella felicità sarebbe durata per sempre. Che fossi necessario, importante. Ma la vita va avanti, e ora la casa è silenziosa. Polvere sulla pentola, uno scricchiolio in un angolo, e gli occasionali latrati del cane del vicino dietro la finestra.
Mio figlio si chiama Luca. Sua madre, la mia defunta moglie Lucia, ci ha lasciati quasi dieci anni fa. Dopo, lui è rimasto lunica persona che mi fosse vicina. Lultimo legame con un passato in cui cera ancora calore e significato.
Lo abbiamo cresciuto con amore e attenzione, ma anche con fermezza. Ho lavorato tanto, le mie mani non hanno mai conosciuto riposo. Lucia era il cuore della nostra casa, e io, le sue mani. Non ero sempre presente, ma quando serviva, cero. Schiavo del lavoro, ma padre in famiglia. Gli ho insegnato ad andare in bicicletta, ho riparato la sua prima Fiat 500, con cui è partito per studiare a Bologna. Ero orgoglioso di lui. Sempre.
Quando Luca si è sposato, la mia gioia è stata immensa. La sua fidanzata, Giulia, mi è sembrata riservata, discreta. Si sono trasferiti allaltra parte della città. Ho pensato: pazienza, che vivano la loro vita, che costruiscano qualcosa. E io sarò lì per aiutarli, sostenerli. Credevo che sarebbero venuti a trovarmi, che avrei potuto badare ai miei nipoti, leggere loro storie la sera. Ma nulla è andato come speravo.
Allinizio, solo brevi telefonate. Poi solo messaggi per le feste. Sono andato da loro diverse volte con una crostata, dei dolci. Una volta mi hanno aperto, ma mi hanno detto che Giulia aveva lemicrania. Unaltra volta, il bambino dormiva. La terza, non hanno nemmeno aperto. Dopo, ho smesso di andare.
Non ho fatto scenate. Non mi sono lamentato. Mi sono seduto e ho aspettato. Mi dicevo: hanno i loro problemi, il lavoro, i figli prima o poi migliorerà. Ma il tempo è passato, e ho capito: non cè posto per me nella loro vita. Nemmeno per lanniversario della morte di Lucia sono venuti. Solo una telefonata e basta.
Recentemente, ho incontrato Luca per caso in strada. Teneva per mano suo figlio, portava delle borse. Lho chiamato il cuore mi si è stretto di gioia. Si è girato, mi ha guardato come uno sconosciuto. «Papà, tutto bene?» ha chiesto. Ho annuito. Lui ha fatto lo stesso. Ha detto che aveva fretta. E se nè andato. Ecco il nostro incontro.
Ho camminato a lungo per tornare a casa. Mentre camminavo, mi chiedevo: dove ho sbagliato? Perché mio figlio mi è diventato estraneo? Forse sono stato troppo severo? O troppo permissivo? O forse sono solo diventato un peso con i miei ricordi, la mia vecchiaia, il mio silenzio
Ora, sono la mia famiglia, il mio sostegno. Preparo il tè, rileggo le lettere di Lucia, a volte mi siedo sulla panchina e guardo i bambini degli altri giocare. La vicina, Anna, ogni tanto mi saluta con la mano. Rispondo con un cenno del capo. È così che vivo.
Amo ancora mio figlio. Più di ogni cosa. Ma non aspetto più nulla. Forse è il destino dei genitori lasciar andare. Ma nessuno ci prepara al giorno in cui diventiamo superflui nella vita di quelli per cui abbiamo vissuto.
E forse, questa è la vera maturità. Solo che non è più quella del figlio. Ma quella del genitore.










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